Il Neoplatonismo alle soglie
del Rinascimento. Oriente e Occidente, Grecia e Roma si incontrano.
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1. Razionalisti vs. Mistici nell’Impero Romano d’Oriente. Il ruolo
dei calabresi
“Nel secolo XIV il movimento
esicastico assunse il significato di una particolare tendenza mistico-ascetica
che indirettamente risaliva al grande mistico del secolo XI, Simeone il Nuovo
Teologo, le cui dottrine e la cui prassi hanno molto in comune con quelle degli
esicasti. L’origine di questa tendenza risale direttamente all’opera di
Gregorio Sinaita, che nel quarto decennio del secolo XIV viaggiò attraverso i
territori dell’impero. Le dottrine mistico-ascetiche del Sinaita vennero
entusiasticamente accolte nei monasteri bizantini. Particolarmente grande fu
l’entusiasmo sul Monte Athos: l’antica culla dell’ortodossia bizantina divenne
il centro del movimento esicastico. Il fine più alto degli esicasti era la
visione della luce divina e la via per giungervi era per essi la prassi
ascetica. In solitudine e ritiro l’esicasta doveva recitare la cosiddetta
preghiera di Gesù (« Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me »), e
mentre recitava la preghiera doveva trattenere il respiro: in questo modo
l’orante avrebbe avvertito gradualmente un senso di beatitudine ineffabile e si
sarebbe visto circondato dai raggi di una luce divina ultraterrena, di quella
luce increata che i discepoli di Gesù videro sul Monte Tabor”.[1]
Nel 1333 viene affidata a Barlaam di Calabria (di Seminara,
nell’attuale provincia di Reggio) la difesa delle ragioni greche nelle
trattative di riunificazione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, di cui era
comunque un convintissimo fautore. Di profonda cultura classica egli fu matematico,
vescovo cattolico, teologo e studioso della musica; scrisse anche di aritmetica,
musica e acustica, ma era soprattutto grande stimatore della filosofia e in
particolare di quella aristotelica, e lui stesso filosofo. In questo clima
attaccò duramente l’esicasmo condannandolo come un movimento eretico e quasi
superstizioso, puntando invece ad accentuare il valore della teologia
scolastica in contrapposizione alla contemplazione.
In questi anni volse la sua
vis polemica contro i monaci del Monte Athos, che come riportato stavano
vivendo una grande vivificazione e rifioritura della tradizione contemplativa
grazie al personaggio di San Gregorio
Palamàs, discepolo di Gregorio il
Sinaita. I due ebbero il merito di riattualizzare in un grande movimento
mistico e culturale gli insegnamenti di San
Simeone il Nuovo Teologo vissuto tre secoli prima, tutti nomi importanti e
noti di quell’immenso patrimonio umano che è la Filocalia.
Barlaam e Gregorio Palamas, a
capo rispettivamente della fazione “razionalistica” e “mistica”, si
fronteggiarono aspramente in delle dispute che videro la definitiva vittoria
della tendenza esicasta in un concilio tenutosi a Costantinopoli nel 1341, dopo
vari anni di lotte. Anche il popolo si schierò dalla parte degli esicasti,
perché non capiva le ragioni astruse degli scolastici. I bizantini stessi non
erano così compatti al loro interno ed erano divisi in fazioni, ma
l’opposizione che fece Barlaam alla dottrina esicasta fu veramente ottusa, anticipatrice
di quella chiusura che un razionalismo estremamente esasperato diffuse così
tanto in Occidente nei secoli a seguire. Infatti Barlaam, per semplificare,
sosteneva che la luce del Monte Tabor che videro i discepoli di Gesù non si
poteva vedere con gli occhi e perciò non si poteva conoscere, e viceversa se
fosse stata Luce Increata allora andava assimilata a Dio stesso, e questi era invisibile
e inconoscibile. Gregorio Palamas invece sosteneva che nell’uomo ci fosse un
elemento mediatore instillato da Dio stesso, che gli permetteva di conoscere
per gradi intermediari la divinità nel percorso ascetico dell’esichia. Si ritorna
sempre all’incontro-scontro tra la tendenza aristotelica-razionalizzante e
quella mistica-platonizzante.
Ad onor della mia terra,
anche la rinascita della tendenza mistica trae origine da un altro calabrese,
della generazione precedente a quella di Barlaam e di Gregorio Palamas: San Niceforo il Solitario, detto
“l’italiano” dai monaci bizantini.
Cattolico, originario
probabilmente della zona del Merkourion (nell’attuale provincia di Cosenza),
nelle zone del Pollino fino a poco prima ad alta densità di cenobi ed eremi di
monaci ortodossi, e ancora al suo tempo e a lungo fortemente grecizzate e di
salde radici ortodosse (l’arcidiocesi di Rossano abbandonerà il rito greco solo
nel Quattrocento, in provincia di Reggio resisteva ancora nel Cinquecento),
intraprende un viaggio a Costantinopoli convertendosi all’Ortodossia, che per
lui doveva essere un ricordo molto vicino e doveva rappresentare la “religione
dei suoi nonni”. A lui si deve il ribadimento e la riattualizzazione della
preghiera esicasta unita ad una pratica respiratoria, e fu ispiratore e maestro
proprio di Gregorio Palamas. Concluse la sua vita in eremitaggio nei pressi del
Monte Athos, nel 1340, proprio un anno prima che il suo discepolo vincesse la
disputa contro l’altro calabrese Barlaam, di temperamento opposto però, burbero
e litigioso.
Questi, sconfitto a
Costantinopoli, fece ritorno in Occidente dove decise di convertirsi al
Cattolicesimo. Si recò alla corte papale, che al tempo risiedeva ad Avignone, e
lì divenne maestro di greco di Petrarca e
di Boccaccio, dando così un fortissimo stimolo all’avvio dell’Umanesimo.
Petrarca convinse papa Clemente VI ad assegnargli la diocesi di Gerace, e dopo
un ultimo inutile tentativo di sconfiggere il partito di Palamas, morì ad
Avignone pochi anni dopo.
2. Il tentativo del 1439, il cardinal Bessarione e l’ascesa di
Firenze
Quasi un secolo dopo l’Impero
Bizantino si era ormai ridotto in pratica ai soli territori circostanti la capitale
Costantinopoli, minacciata dai Turchi ottomani di Bayazid e dalla “novità” dell’invasione
dei Turchi selgiuchidi di Tamerlano, il “Terror Mundi”, che pure nell’attaccare
gli odiati “cugini” regalò un periodo insperato di tregua ai bizantini.
L’imperatore Giovanni VIII Paleologo si recò nel 1437 in Occidente per
convertirsi al Cattolicesimo, pur di ottenere difesa militare e tenere in vita
l’impero a Costantinopoli. Venne indetto un concilio per ratificare questa
decisione, inizialmente tenuto a Ferrara
e poi spostatosi a Firenze sotto l’ala di Cosimo
de’ Medici. Questa decisione di convertirsi in realtà era invisa al
popolo e al clero greco, che si mantenevano fedeli alla tradizione ortodossa, e
costerà la rottura con il granducato di
Mosca che da allora eleggerà autonomamente il proprio metropolita, dando così
l’avvio al mito della “Terza Roma”.
Il 6 luglio 1439 viene
proclamata l’unione tra le due Chiese nella cattedrale di Firenze, in latino e
in greco, dal cardinale cattolico Giuliano Cesarini e dall’arcivescovo di
Nicea, l’ortodosso Bessarione, capo
della fazione dei filo-unionisti greci. Riporta Ostrogorsky che “La
proposizione sul primato papale venne redatta in una formulazione molto vaga e
i Greci avrebbero conservato il loro rito ecclesiastico. L’accordo così
raggiunto non ebbe però alcuna efficacia effettiva sul piano politico,
rimanendo così senza effetti e senza sviluppi. Bessarione insieme a Isidoro,
ex-metropolita di Mosca appena deposto che lo aveva accompagnato insieme a
Giovanni VIII Paleologo in Italia, diventarono cardinali della Chiesa romana”.[2]
Gemisto, detto Pletone, fu l’altro elemento della cordata proveniente
dall’Oriente a dare una decisiva piega agli eventi in Occidente. Già a 38 anni
aveva fondato, prima ancora della missione a Firenze, una scuola
neoplatonizzante nella città di Mistra, l’antica Sparta, dove risiedeva. Fu
notato da Cosimo de’ Medici, riporta infatti Marsilio Ficino che “Il grande Cosimo, quando si svolgeva a Firenze
il concilio per l’unificazione della Chiesa greca con la latina, ascoltò spesso
le discussioni sui misteri platonici di un filosofo greco che di nome si
chiamava Gemisto, di soprannome Pletone, quasi fosse un secondo Platone”. Così
Cosimo de’ Medici donò la villa di Careggi a Marsilio Ficino, incaricandolo di
tradurre tutte le opere di Platone e di Plotino, a cui lui aggiunse il Corpus
Hermeticum, la Teogonia di Esiodo e tante altre opere, dando così di fatto vita
all’Accademia Neoplatonica fiorentina. Nelle ore in cui non lavorava, infatti,
Ficino riceveva le numerose visite delle personalità più geniali e di spicco
del tempo, venendosi così a strutturare una vera e propria accademia.
Gemisto riteneva che tutte le
varie dottrine di Pitagora, di Platone, gli oracoli Caldaici di provenienza
babilonese, come anche la sapienza di Minosse, Licurgo, Numa Pompilio, dei
sacerdoti di Dodona, i Sette Sapienti, Parmenide, Timeo, Plutarco, Porfirio,
Giamblico, dei Magi e perfino dei Brahmani (!) potesse essere simbolizzata
dalla figura di Zarathustra, che lui chiamava priscus theologus, “teologo primordiale”, dalla cui sapienza tutte
le religioni si sarebbero generate. Da questa concezione Marsilio Ficino trasse
la sua prisca philosophia, o philosophia perennis, cioè la sapienza
primordiale donata agli uomini identica nella sua essenza, diversa nelle varie
manifestazioni in cui si adatta alle mentalità dei popoli. Questa concezione fu
ripresa a inizio Novecento dal grande esoterista René Guénon sintetizzandola
nel nuovo e antichissimo concetto di Tradizione Primordiale.