mercoledì 22 settembre 2021

Aretè, Virtus, Dharma

 Aretè, Virtus, Dharma 




Qual è il senso della vita? Ognuno di noi deve trovare la risposta. Ma il problema più grande è: come? È difficile trovare il senso di qualcosa infinitamente più grande di noi.

Ci deve essere allora qualcosa capace di metterci in contatto con l’infinitamente grande, che ci permetta di scoprire il senso della vita. Questo “qualcosa” è stato chiamato in vari luoghi e in varie epoche aretè, virtus, dharma, a seconda che ci si trovi in Grecia, Roma o India.

L’aretè è la capacità dell’uomo greco di assolvere al proprio dovere, e viene dalla radice –ar che denota l’aspetto guerriero della vita (Ares è il dio della guerra). Ma questo dovere chi lo decide? Ognuno di noi porta scolpita dentro di sé la propria legge interiore, e nella formulazione indiana di questa visione, che è al tempo stesso la più chiara e la più poetica, questa legge si chiama dharma. La parola rimanda al senso di immutabilità, di stabilità incontrovertibile, che rimane nell’imparentata parola italiana “firma”. Esiste un dharma individuale, così come un Dharma cosmico, e infiniti dharma “intermedi” di gruppi o insieme di cose, ad esempio di un popolo. Porre il proprio dharma in armonia con il Dharma (in ar-monia, figlia di Ares e Afrodite) universale è precisamente il risultato di aver conquistato l’aretè.

Il mezzo con cui diventiamo capaci di conquistare l’aretè è la virtus, cioè quella caratteristica interiore che ci fa sintonizzare con il sentire del nostro Centro. Possiamo anche dire che i due concetti sono in parte sovrapponibili.

Ma la virtus costa fatica: bisogna allenarsi e addestrarsi tutti i giorni per raffinare la propria sensibilità, riuscire innanzitutto a distinguere gli impulsi negativi da quelli positivi, le istanze interiori che ci fanno disperdere energie da quelle che ce le fanno raccogliere; ottenuto questo già importante risultato, si tratta poi di scegliere di assecondare l’intuito che porta al Centro contro le innumerevoli tendenze della nostra natura a battere i percorsi già conosciuti, percorsi che spesso sono discendenti.

Quindi la virtus si ottiene con due mezzi che in realtà sono uno: allenare la nostra intuizione e il nostro sentire interiore, per mezzo dell’introspezione; e la pratica delle virtù, cioè un agire corretto e conforme alla norma che ci si è dati, che gradualmente si trasformerà nella norma interiore (il proprio dharma) che risulterà sempre più chiaro e il cui emergere eclisserà le norme esteriori che avranno così esaurito il loro compito di supporto temporaneo ed esterno.


Infine, conosciuto e messo in pratica il proprio dharma, attraverso l’aretè, nutrita dalla virtus, saremo diventati uomini veri. Si attua così il passaggio da homo a vir, da uomo puramente biologico a persona consapevole delle proprie potenzialità, sia sul piano della trascendenza che su quello dell’immanenza. Un tale uomo veniva chiamato arya dai nostri progenitori indoeuropei, che vuol dire nobile e che designava i capi tribù, i re e i capi militari di un tempo. I re di una volta non avevano grossi regni, come Ulisse potevano regnare su un isola con poche centinaia di abitanti; nondimeno sono passati alla storia come sommi esempi di virtù, perché la loro vita è stata una adesione e attuazione costante delle azioni che sbocciavano dal loro sentire più profondo, e che rispettavano con la giusta riverenza che bisogna tributare al proprio Centro, alla nostra vera natura.

Una tale vita, piena di felicità poiché avrà dato molti frutti, non per questo esente da sofferenze anche dolorose, potrà a pieno titolo dirsi degna di essere vissuta e colmata dalla pienezza di senso. 






domenica 2 dicembre 2018

Sette torri in Oriente...



“Nelle foreste vergini della Cambogia, vivono due misteriosi sovrani, conosciuti sotto il nome di re del fuoco e re dell’acqua. Sono famosi in tutto il sud della grande penisola indocinese; ma solo una pallida eco di questa loro fama è arrivata all’ovest. Per quanto se ne sa, fino a pochi anni or sono nessun europeo li aveva mai visti, e la loro stessa esistenza si sarebbe potuta prendere per una favola, se non fosse che, fino ad epoca recente, si sono tenuti in contatto con il re della Cambogia, scambiandosi doni ogni anno. Le loro funzioni regali sono di tipo esclusivamente mistico o spirituale; sono semplici contadini, che vivono col sudore della fronte e con le offerte dei fedeli. Qualcuno afferma che vivano in assoluta solitudine, senza mai incontrarsi fra di loro, senza vedere mai una faccia umana. Vanno a vivere successivamente in sette torri, appollaiate su sette montagne, spostandosi ogni anno dall’una all’altra. La  gente si reca da loro di nascosto, lasciando a portata di mano il necessario per la loro sopravvivenza. Il loro potere sovrano dura sette anni, il tempo necessario per abitare nelle sette torri, una dopo l’altra; ma molti muoiono prima dello scadere del termine. I due uffici sono ereditari in una (c’è chi dice due) famiglie reali, che godono di grande considerazione e sono esentate dalla necessità di lavorare la terra”[1].
Sembrerebbe un sottocentro orientale dei cosiddetti sette centri spirituali, a cui le “sette torri del diavolo” che pretendono di opporvisi ne ricalcano lo schema...


[1] J. Frazer, Il Ramo d’Oro, Newton Compton Editori, giugno 2018, Roma, pp. 136-137 (corsivi miei).

giovedì 8 novembre 2018

EUXIT?


EUXIT?





Voglio accennare una risposta alla proposta “Manifesto per un’Europa Nuova” del 1999 e ieri ripubblicato (cfr. https://associazionefederigoiisvevia.wordpress.com/2018/11/07/un-vecchio-scritto-1999/).

Quando questo documento veniva scritto avevo sei anni, ed è ancora completamente valido adesso che ne ho venticinque. Ciò che è cambiato, anzi completamente esaurito, è il sistema stesso in cui ci ritroviamo a vivere.
È vero che il sistema figlio della mentalità attuale è stato imposto e si continua ad imporre nascondendolo “in piena luce”, come insegna Poe, ma anche il primo dei 36 Stratagemmi della saggezza militare cinese, “Attraversare il mare per ingannare il cielo”. Una volta che si capisce che la mentalità moderna è una vera e propria mutazione antropologica installata sull’uomo, sembra quasi scontato e banale che la coercizione non venga percepita, e neppure l’inasprirsi di tale coercizione, nonostante il grosso e lungo lavoro su sé stessi che si è reso necessario per percepire tale stato dei fatti.
Il nodo principale è comunque l’eliminazione della necessità dell’uomo da parte della tecnica. E mi si scuserà se salto direttamente al punto centrale, e non sto qui a elaborare elegantemente il mio pensiero (cosa che apprezzo molto quando mi ci imbatto), ma sono cresciuto in un’epoca in cui si parla parla per non venire mai al succo, per non concludere mai niente, che a parlare siano politici o gente che vuole essere decipiata su qualche social network.
In un servizio da qualche parte vedevo che la Kodak aveva 20.000 dipendenti fino a qualche anno fa (il dato non è preciso ma l’ordine di grandezza sicuramente sì) mentre Instagram attualmente ne ha solo 20. Ecco il risultato della tecnica: un’azienda che genera più fatturato della Kodak con l’un per mille dei suoi dipendenti, e in più con la capacità di mutare le abitudini più quotidiane degli esseri umani che una pur rispettabile industria di rullini fotografici se la poteva sognare.
Ma come, lo scopo dell’imprenditoria e del mercato libero non era di creare ricchezza? Alt, è di creare valore, stando alle idee aggiornate ad oggi, e si intende precisamente valore per chi la ricchezza già ce l’ha. Se pensate che sia diverso, siete fuori. Mi dispiace ma c’è poco da parlamentare.
Quindi alle contro-élite economiche fondamentalmente non serve che ci siano tutti questi esseri umani. E se non si pensa a uno sterminio di massa, di certo però implica che anche se la povertà dovesse iniziare a dilagare questo non cambierebbe di una virgola le intenzioni della classe dirigente globale.
Fino a ieri l’obiettivo di piena occupazione era funzionale al consenso del sistema, ora non più.
Ecco la verità. Vi piace? No. Tutti a ribellarvi? Ah ah ah. Pecorelle.

L’idea scritta nel Manifesto è quella di creare un organismo istituzionale in grado di porre un argine alla deriva liberista mediante una istituzione che torni a dirigere settori strategici dell’economia, che portino almeno al risultato di preservare uno stile di vita non barbarico in Europa (qui ovviamente si pensa all’Europa soprattutto). In realtà è una richiesta di buon senso, visto lo stato attuale delle cose.
Il ritorno dei nazionalismi è infatti una maschera per il ritorno di quei settori dell’economia “reale” che stanno venendo fagocitati dal sistema di scambio virtuale e simulato di oggi. Infatti non esistono più nazioni e stati su cui appoggiarsi, per cui non sarebbe neanche corretto parlare di nazionalismo; si tratta infatti, citando, di una specie di Lega Anseatica che prende il timone di uno stato, per opporsi egli effetti dissolventi della globalizzazione (un tantino in ritardo però). Questo sono i vari Trump e Brexit, non di certo voluti da una classe dirigente statalista e autoritaria, ma da settori dell’economia reale – questo a testimoniare ancora di più che la politica non conta niente, ché anche una risposta volta a stoppare l’emorragia di potere dalla politica all’economia viene dall’economia, seppur e non a caso da quella più ancorata al dato reale e vicina alle istituzioni politiche.
Anche in Italia il fenomeno Lega secondo me rientra in questa ondata, in quanto raccoglie le istanze di quei fattori produttivi che sarebbero più danneggiati da un ulteriore calo di domanda interna, dietro una maschera sovranista che ne consente l’appiglio emozionale in fase elettorale. Quindi dietro ci sono comunque gli interessi dell’economia del Nord, nonostante la dicitura sia caduta per il medesimo motivo.
L’altro “fenomeno” italiano, il Movimento 5 Stelle, lo reputo anche più pericoloso. Hanno raccolto tutto il malcontento della popolazione, e il suo ex leader carismatico, Beppe Grillo, è un tecnofeticista con visioni ecologiste. Ora che è in secondo piano, può permettersi di “buttare le zippe”, lanciare piccoli messaggi come per dire “iniziate a entrare nell’ottica che...”, coi suoi spettacoli introduce tematiche non tanto percepite in Italia, soprattutto inerenti al ruolo messianico della tecnologia e della venerazione spropositata e compensativa dell’ambiente.
In pratica, il “partito della ribellione” che ha il 30% dei consensi si fa portatore delle istanze più egoistiche e minoritarie che attualmente ci sono sul pianeta.
E allora davvero ergo decipiantur, si rimane basiti. Di un basiti che se non sai da dove viene questa ignoranza (nel senso di avidya) fatichi a reggere la realtà.
Quindi, si diceva, in questo scenario la creazione di un’istituzione o la trasformazione ad esempio dell’Autorità garante della Concorrenza potrebbe effettivamente rappresentare un argine. Ma come imbriglio il sistema bancario, costringendolo ad esempio a eseguire un ordine o una manovra che vada in senso dirigista a discapito della finanza? Per questo c’è bisogno necessariamente della sponda politica, che per quanto spogliata potrebbe ad es. con il ricatto di non ricapitalizzare in caso di necessità, costringere l’asse finanziario se non altro a concedere una tregua. Un’alleanza tra l’istituzione simil-MITI e il governo potrebbe in questo senso ritrovare un piccolo spazio in cui operare.
Sullo stato comatoso in cui si trovano le forze progressiste e storicamente europeiste, non mi esprimo proprio: Cacciari al forum PD di una settimana fa a Milano gliele ha cantate sonoramente, annunciando loro che verranno spazzati via: non tifo affatto dissoluzione, personalmente, ma il sassolino dalla scarpa me lo caccio volentieri.
Anche perché la mentalità utilitarista-umanista (cfr. M. Benasayag) sulla cui polarità si regge l’attuale sistema, per cui si alterna il consumismo al progressismo dei “valori buoni” anzi buonisti, è portata avanti tranquillamente da Google, Apple, Amazon, Facebook e altri giganti che di certo non hanno più bisogno del politico.
Se si vuole rifondare l’Europa su questi pseudovalori, immagino che a breve anche questo tentativo di unione sarà stato vano. Fallimento contenuto in germe fin dalla nascita però.

C’è anche da riflettere che questo scontro tra politica, economia e società civile non ha tanto senso, perché si indebolisce l’anello esterno della società, mentre il cerchio più interno che ora ha in mano il potere decisionale, i sopracitati “Giganti della Tecnica”, non ne vengono scalfiti. Anzi, si vedono fatto il lavoro sporco (che poi contribuiscano pure, è altro discorso).
Che poi, in realtà, non è affatto vero che siano loro il cerchio più interno...

domenica 3 giugno 2018

Un profetico Nietzsche sull'Europa


Da un passo di Umano, troppo Umano (#475, cap. 9) di F. Nietzsche, profetico visto che è del 1878:

“Il commercio e l’industria, lo scambio di libri e di lettere, la comunanza di tutta la cultura superiore, il rapido mutar di luogo e di paese, l’odierna vita nomade di tutti coloro che non posseggono terra – queste circostanze portano necessariamente con sé un indebolimento e alla fine una distruzione delle nazioni, per lo meno di quelle europee; sicché da esse tutte, in seguito ai continui incroci, dovrà nascere una razza mista, quella dell’uomo europeo. Contro questa meta opera oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, l’isolamento delle nazioni dovuto alla fomentazione di inimicizie nazionali, ma lentamente quel mescolamento fa lo stesso il suo cammino, nonostante le temporanee correnti contrarie: questo nazionalismo artificiale è del resto tanto pericoloso, quanto lo è stato il cattolicesimo artificiale, giacché è nella sua essenza uno stato d’emergenza e d’assedio, che è stato proclamato da pochi su molti, e ha bisogno di astuzia, menzogna e violenza per mantenersi in credito. Non l’interesse dei molti (dei popoli), come ben si dice, bensì innanzitutto l’interesse di determinate dinastie regnanti e poi quello di determinate classi del commercio e della società, spingono a questo nazionalismo; una volta che si sia riconosciuto ciò, bisogna dirsi francamente solo buoni Europei e contribuire con l’azione alla fusione delle nazioni: alla qual impresa i Tedeschi possono collaborare con la loro vecchia e provata qualità di fare da interpreti e da mediatori dei popoli”.

giovedì 31 maggio 2018

Vairocana e Montsalvat, due diverse descrizioni...


Due diverse descrizioni del Centro Spirituale supremo:

La descrizione della Torre Vairocana:


"Poi Sudhana prega il Bodhisattva Maitreya di aprire la Torre e di permettergli di entrare. Il Bodhisattva si accosta e schiocca le dita, ed ecco che le porte si aprono. Con quanta gioia entra Sudhana, quando le porte si richiudono da sole, misteriosamente come si erano aperte!
E quale spettacolo gli si rivela!
La Torre è ampia e spaziosa come il cielo. Il suolo è pavimentato da asamkhyeya (lett.: innumerevoli) di pietre preziose d'ogni genere, e nella Torre vi sono asamkhyeya di palazzi, porticati, finestre, scale, ballatoi e corridoi, tutti fatti con sette varietà di pietre preziose. Vi sono baldacchini, bandiere, funi, reti drappi di ogni forma, fatti anch'essi di pietre preziose, asamkhyeya in numero. Asamkhyeya di campanelle tintinnano nella brezza, asamkhyeya di fiori vengono innaffiati, asamkhyeya di ghirlande oscillano, asamkhyeya di incensieri ardono ovunque, asamkhyeya di scaglie d'oro sono sparsi qua e là, asamkhyeya di specchi risplendono, ardono asamkhyeya di lampade, asamkhyeya di drappi sono distesi intorno, asamkhyeya di troni gemmati sono disposti in fila, ricoperti da asamkhyeya di arazzi.
Vi sono inoltre asamkhyeya di figure di varai sorte, fatte di oro di Jambunāda o di pietre preziose: figure di fanciulle, di Bodhisattva, e così via.
Asamkhyeya di bellissimi uccelli cantano melodiosamente, asamkhyeya di fiori di loto di parecchi colori sbocciano, asamkhyeya di alberi sono disposti in file regolari, asamkhyeya di grandi gioielli-mani emettono squisiti raggi di luce: e tutti questi asamkhyeya di decorazioni splendide di pietre preziose riempiono la Torre in tutta la sua estensione.
E in questa Torre, immensa e squisitamente adornata, vi sono anche centinaia di migliaia di asamkhyeya di torri, ognuna delle quali è ornata con lo stesso splendore della Torre principale ed è spaziosa come il cielo. E tutte queste torri di numero incalcolabile non si ostruiscono a vicenda; ognuna conserva la sua esistenza individuale in perfetta armonia con il resto; non vi è nulla che impedisca a una torre di fondersi con le altre, individualmente e collettivamente; vi regna uno stato di perfetta fusione eppure di ordine perfetto. Il giovane pellegrino Sudhana si vede in tutte le torri ed in ogni singola torre, dove tutto è contenuto in una e ciascuna contiene tutto."
(D. T. Suzuki, Saggi sul Buddhismo Zen, vol. III, cap. III, pag. 113-114)


La descrizione del Tempio del Santo Graal:


"Si tratta di una descrizione grandiosa. Nel paese di Salvaterra sorge un'alta montagna di nome Montsalvat. Il re Titurel l'ha circondata di un'alta muraglia e ha costruito sulla sua cime un castello superbo, il Gralsburg. Qi decide di fondare un tempio per il Graal: fino ad allora infatti il Tempio non ha avuto una sede stabile, ma planava tra cielo e terra sostenuto da Angeli invisibili. L'edificio è costruito con pietre e materiali preziosi di ogni genere: predomina l'oro; il mobilio è di legno di aloe. Le pietre sono scelte secondo i princìpi dell'arte di Pitagora a della scienza di Eraclio. La roccia della montagna è onice. Ogni erba e ogni strato di terra sono stati tolti: la superficie di onice brilla di splendore pari a quello della Luna. Su questa superficie appare un mattino, proiettata dal cielo, tutta la pianta del Tempio, completamente tracciata.
In verticale l'edificio forma un'alta volta sostenuta da colonne di bronzo: è interamente decorato d'oro e di pietre preziose. Le finestre sono contornate di berillo e di cristallo lucente. Le vetrate, colorate o incrostate di pietre preziose, attenuano il bagliore della luce. Anche il tetto è d'oro, incrostato di minerali preziosi perché il suo splendore non accechi. La costruzione del Tempio del Graal avvenne sotto la stessa assistenza del Cielo che aveva permesso la costruzione del Tempio di Salomone, Templum Domini Throni, a Gerusalemme. Le pietre venivano portate già tagliate in modo che durante la costruzione del Tempio non risuonasse il minimo rumore di martello o scalpello. E così avvenne per i costruttori del Tempio di Titurel: tutto era inviato loro dal Graal.
L'alta volta centrale è ricoperta di zaffiro, in modo da presentare l'immagine della volta celeste col suo azzurro splendore, ed è disseminata di piccoli punti luminosi che brillano come stelle nell'oscurità della notte. Vi è un'immagine del Sole, fatta d'oro, e una della Luna, d'argento. Messi in movimento da un ingegnoso orologio nascosto i due astri camminano senza posa attraverso un superbo zodiaco: cembali d'oro annunciano l'avvicendarsi dei giorni.
L'insieme del Tempio forma un'alta e vasta rotonda divisa in un certo numero di cori sporgenti verso l'esterno. Alcuni manoscritti ne contano 72, altri 22. Chi sollevasse poi riserve sulle proporzioni gigantesche dell'edificio con i suoi 72 cori, dimenticherebbe che il Tempio del Graal è situato «alla confluenza dei due mari», in una «Terra di Luce» che non è retta dalle leggi della fisica. In ognuno dei cori l'altare è orientato, cioè rivolto verso est. Anche il coro principale è rivolto a oriente: la sua misura è doppia delle altre e il suo aspetto più sontuoso. Esso è consacrato allo Spirito Santo. I cori successivi sono dedicati a ognuno degli undici apostoli, mentre i quattro evangelisti sono rappresentati da quattro statue di Angeli che dirigono l'attenzione verso il Trono celeste. Sopra il portale occidentale si trova un organo di fattura e potenza straordinarie.
Infine, al centro della rotonda, si trova il Sancta Sanctorum, un piccolo edificio che riproduce, come un microcosmo, l'intera struttura del grande Tempio. Le torri che all'esterno fiancheggiano il grande Tempio sono qui sostituite da cibori con immagini di santi. In questo Sancta Sanctorum è conservato il Graal, sospeso a mezz'aria, cos' che lo spazio sottostante forma un largo sacrarium. Si tenga ancora presente che l'edificio ha, nel suo insieme, l'aspetto di una semirotonda gotica raddoppiata in modo da diventare un cerchio perfetto.
Il Tempio del Graal concepito da Titurel è un'immagine del Tempio cosmico. Alberi artificiali carichi di Angeli e di uccelli; sul pavimento una foresta di fiori, gigli e rose; sulle mura smeraldi di un verde splendente: tutta la rotonda offre lo spettacolo di un giardino incantato, di una Terra trasfigurata, di un paradiso terrestre.
In quanto tale il Tempio del Graal è un santuario situato al centro del mondo: Montsalvat è la montagna al centro del mondo."
(H. Corbin, L'immagine del Tempio, IV, 7, pag. 220-222)

domenica 25 marzo 2018

Il Neoplatonismo alle soglie del Rinascimento. Oriente e Occidente, Grecia e Roma si incontrano.


Il Neoplatonismo alle soglie del Rinascimento. Oriente e Occidente, Grecia e Roma si incontrano.


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1. Razionalisti vs. Mistici nell’Impero Romano d’Oriente. Il ruolo dei calabresi

“Nel secolo XIV il movimento esicastico assunse il significato di una particolare tendenza mistico-ascetica che indirettamente risaliva al grande mistico del secolo XI, Simeone il Nuovo Teologo, le cui dottrine e la cui prassi hanno molto in comune con quelle degli esicasti. L’origine di questa tendenza risale direttamente all’opera di Gregorio Sinaita, che nel quarto decennio del secolo XIV viaggiò attraverso i territori dell’impero. Le dottrine mistico-ascetiche del Sinaita vennero entusiasticamente accolte nei monasteri bizantini. Particolarmente grande fu l’entusiasmo sul Monte Athos: l’antica culla dell’ortodossia bizantina divenne il centro del movimento esicastico. Il fine più alto degli esicasti era la visione della luce divina e la via per giungervi era per essi la prassi ascetica. In solitudine e ritiro l’esicasta doveva recitare la cosiddetta preghiera di Gesù (« Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me »), e mentre recitava la preghiera doveva trattenere il respiro: in questo modo l’orante avrebbe avvertito gradualmente un senso di beatitudine ineffabile e si sarebbe visto circondato dai raggi di una luce divina ultraterrena, di quella luce increata che i discepoli di Gesù videro sul Monte Tabor”.[1]
Nel 1333 viene affidata a Barlaam di Calabria (di Seminara, nell’attuale provincia di Reggio) la difesa delle ragioni greche nelle trattative di riunificazione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, di cui era comunque un convintissimo fautore. Di profonda cultura classica egli fu matematico, vescovo cattolico, teologo e studioso della musica; scrisse anche di aritmetica, musica e acustica, ma era soprattutto grande stimatore della filosofia e in particolare di quella aristotelica, e lui stesso filosofo. In questo clima attaccò duramente l’esicasmo condannandolo come un movimento eretico e quasi superstizioso, puntando invece ad accentuare il valore della teologia scolastica in contrapposizione alla contemplazione.
In questi anni volse la sua vis polemica contro i monaci del Monte Athos, che come riportato stavano vivendo una grande vivificazione e rifioritura della tradizione contemplativa grazie al personaggio di San Gregorio Palamàs, discepolo di Gregorio il Sinaita. I due ebbero il merito di riattualizzare in un grande movimento mistico e culturale gli insegnamenti di San Simeone il Nuovo Teologo vissuto tre secoli prima, tutti nomi importanti e noti di quell’immenso patrimonio umano che è la Filocalia.

Barlaam e Gregorio Palamas, a capo rispettivamente della fazione “razionalistica” e “mistica”, si fronteggiarono aspramente in delle dispute che videro la definitiva vittoria della tendenza esicasta in un concilio tenutosi a Costantinopoli nel 1341, dopo vari anni di lotte. Anche il popolo si schierò dalla parte degli esicasti, perché non capiva le ragioni astruse degli scolastici. I bizantini stessi non erano così compatti al loro interno ed erano divisi in fazioni, ma l’opposizione che fece Barlaam alla dottrina esicasta fu veramente ottusa, anticipatrice di quella chiusura che un razionalismo estremamente esasperato diffuse così tanto in Occidente nei secoli a seguire. Infatti Barlaam, per semplificare, sosteneva che la luce del Monte Tabor che videro i discepoli di Gesù non si poteva vedere con gli occhi e perciò non si poteva conoscere, e viceversa se fosse stata Luce Increata allora andava assimilata a Dio stesso, e questi era invisibile e inconoscibile. Gregorio Palamas invece sosteneva che nell’uomo ci fosse un elemento mediatore instillato da Dio stesso, che gli permetteva di conoscere per gradi intermediari la divinità nel percorso ascetico dell’esichia. Si ritorna sempre all’incontro-scontro tra la tendenza aristotelica-razionalizzante e quella mistica-platonizzante.
Ad onor della mia terra, anche la rinascita della tendenza mistica trae origine da un altro calabrese, della generazione precedente a quella di Barlaam e di Gregorio Palamas: San Niceforo il Solitario, detto “l’italiano” dai monaci bizantini.
Cattolico, originario probabilmente della zona del Merkourion (nell’attuale provincia di Cosenza), nelle zone del Pollino fino a poco prima ad alta densità di cenobi ed eremi di monaci ortodossi, e ancora al suo tempo e a lungo fortemente grecizzate e di salde radici ortodosse (l’arcidiocesi di Rossano abbandonerà il rito greco solo nel Quattrocento, in provincia di Reggio resisteva ancora nel Cinquecento), intraprende un viaggio a Costantinopoli convertendosi all’Ortodossia, che per lui doveva essere un ricordo molto vicino e doveva rappresentare la “religione dei suoi nonni”. A lui si deve il ribadimento e la riattualizzazione della preghiera esicasta unita ad una pratica respiratoria, e fu ispiratore e maestro proprio di Gregorio Palamas. Concluse la sua vita in eremitaggio nei pressi del Monte Athos, nel 1340, proprio un anno prima che il suo discepolo vincesse la disputa contro l’altro calabrese Barlaam, di temperamento opposto però, burbero e litigioso.
Questi, sconfitto a Costantinopoli, fece ritorno in Occidente dove decise di convertirsi al Cattolicesimo. Si recò alla corte papale, che al tempo risiedeva ad Avignone, e lì divenne maestro di greco di Petrarca e di Boccaccio, dando così un fortissimo stimolo all’avvio dell’Umanesimo. Petrarca convinse papa Clemente VI ad assegnargli la diocesi di Gerace, e dopo un ultimo inutile tentativo di sconfiggere il partito di Palamas, morì ad Avignone pochi anni dopo.



2. Il tentativo del 1439, il cardinal Bessarione e l’ascesa di Firenze

Quasi un secolo dopo l’Impero Bizantino si era ormai ridotto in pratica ai soli territori circostanti la capitale Costantinopoli, minacciata dai Turchi ottomani di Bayazid e dalla “novità” dell’invasione dei Turchi selgiuchidi di Tamerlano, il “Terror Mundi”, che pure nell’attaccare gli odiati “cugini” regalò un periodo insperato di tregua ai bizantini. L’imperatore Giovanni VIII Paleologo si recò nel 1437 in Occidente per convertirsi al Cattolicesimo, pur di ottenere difesa militare e tenere in vita l’impero a Costantinopoli. Venne indetto un concilio per ratificare questa decisione, inizialmente tenuto a Ferrara e poi spostatosi a Firenze sotto l’ala di Cosimo de’ Medici. Questa decisione di convertirsi in realtà era invisa al popolo e al clero greco, che si mantenevano fedeli alla tradizione ortodossa, e costerà la rottura con il granducato di Mosca che da allora eleggerà autonomamente il proprio metropolita, dando così l’avvio al mito della “Terza Roma”.
Il 6 luglio 1439 viene proclamata l’unione tra le due Chiese nella cattedrale di Firenze, in latino e in greco, dal cardinale cattolico Giuliano Cesarini e dall’arcivescovo di Nicea, l’ortodosso Bessarione, capo della fazione dei filo-unionisti greci. Riporta Ostrogorsky che “La proposizione sul primato papale venne redatta in una formulazione molto vaga e i Greci avrebbero conservato il loro rito ecclesiastico. L’accordo così raggiunto non ebbe però alcuna efficacia effettiva sul piano politico, rimanendo così senza effetti e senza sviluppi. Bessarione insieme a Isidoro, ex-metropolita di Mosca appena deposto che lo aveva accompagnato insieme a Giovanni VIII Paleologo in Italia, diventarono cardinali della Chiesa romana”.[2]

Gemisto, detto Pletone, fu l’altro elemento della cordata proveniente dall’Oriente a dare una decisiva piega agli eventi in Occidente. Già a 38 anni aveva fondato, prima ancora della missione a Firenze, una scuola neoplatonizzante nella città di Mistra, l’antica Sparta, dove risiedeva. Fu notato da Cosimo de’ Medici, riporta infatti Marsilio Ficino che “Il grande Cosimo, quando si svolgeva a Firenze il concilio per l’unificazione della Chiesa greca con la latina, ascoltò spesso le discussioni sui misteri platonici di un filosofo greco che di nome si chiamava Gemisto, di soprannome Pletone, quasi fosse un secondo Platone”. Così Cosimo de’ Medici donò la villa di Careggi a Marsilio Ficino, incaricandolo di tradurre tutte le opere di Platone e di Plotino, a cui lui aggiunse il Corpus Hermeticum, la Teogonia di Esiodo e tante altre opere, dando così di fatto vita all’Accademia Neoplatonica fiorentina. Nelle ore in cui non lavorava, infatti, Ficino riceveva le numerose visite delle personalità più geniali e di spicco del tempo, venendosi così a strutturare una vera e propria accademia.
Gemisto riteneva che tutte le varie dottrine di Pitagora, di Platone, gli oracoli Caldaici di provenienza babilonese, come anche la sapienza di Minosse, Licurgo, Numa Pompilio, dei sacerdoti di Dodona, i Sette Sapienti, Parmenide, Timeo, Plutarco, Porfirio, Giamblico, dei Magi e perfino dei Brahmani (!) potesse essere simbolizzata dalla figura di Zarathustra, che lui chiamava priscus theologus, “teologo primordiale”, dalla cui sapienza tutte le religioni si sarebbero generate. Da questa concezione Marsilio Ficino trasse la sua prisca philosophia, o philosophia perennis, cioè la sapienza primordiale donata agli uomini identica nella sua essenza, diversa nelle varie manifestazioni in cui si adatta alle mentalità dei popoli. Questa concezione fu ripresa a inizio Novecento dal grande esoterista René Guénon sintetizzandola nel nuovo e antichissimo concetto di Tradizione Primordiale.



[1] G. Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, Einaudi, Torino 2016, p. 463.
[2] Ibidem, pp. 502-503.