giovedì 9 giugno 2016

Il lavoro e la morte, estratto da “Lo scambio simbolico e la morte” di J. Baudrillard del 1976

Il lavoro e la morte,
estratto da: J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte”, capitolo primo, pag. 54-60, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2015. 

Altre società hanno conosciuto poste in gioco molteplici: sulla nascita e la parentela, sull’anima e il corpo, sul vero e il falso, sulla realtà e l’apparenza. L’economia politica le ha tutte ribattute su una sola: la produzione — ma allora fu una posta in gioco formidabile, la violenza e la speranza furono smisurate. Al giorno d’oggi, è finito: il sistema ha svuotato la produzione di qualsiasi posta reale. Ma una verità più radicale si fa luce, ed è il trionfo stesso del sistema che permette d’intravvedere questa posta fondamentale. Diventa persino possibile analizzare retrospettivamente tutta l’economia politica come qualcosa che non ha nulla a che vedere con la produzione. Come una sposta di vita e di morte. Come posta simbolica.
    Tutte le poste sono simboliche. Ci sono sempre state solamente poste simboliche. Questa dimensione è ovunque in filigrana nella legge strutturale del valore, ovunque immanente nel codice.
   La forza-lavoro si fonda sulla morte. Bisogna che un uomo muoia per diventare forza lavoro. È questa morte che egli monetizza nel salario. Ma la violenza economica che gli è inflitta dal capitale nell’inequivalenza del salario e della forza-lavoro non è nulla rispetto alla violenza simbolica che gli è inflitta nella sua stessa definizione di forza produttiva. La falsificazione di questa equivalenza è nulla di fronte all’equivalenza, come segno, del salario con la morte.
   La possibilità stessa dell’equivalenza quantitativa presuppone la morte. Quella del salario e della forza-lavoro presuppone la morte dell’operaio; quella di tutte le merci fra di loro presupposte lo sterminio simbolico degli oggetti. È la morte che ovunque rende possibile il calcolo dell’equivalenza e la regolazione mediante l’indifferenza. Questa morte non è violenza e fisica, è la commutazione indifferente della vita e della morte, la neutralizzazione rispettiva della vita e della morte nella sopravvivenza, o la morte differita.
   Il lavoro è una morte lenta. La s’intende generalmente nel senso dell’estenuazione fisica. Ma bisogna intenderla altrimenti: il lavoro non si oppone, come una specie di morte, alla “realizzazione della vita” — questa è una concezione idealistica — il lavoro si oppone come una morte lenta a una morte violenta. Questa è la realtà simbolica. Il lavoro si oppone come morte differita alla morte immediata del sacrificio. Contro qualsiasi concezione pietosa e “rivoluzionaria” del tipo “il lavoro (o la cultura) è l’opposto della vita”, si deve sostenere che la sola alternativa al lavoro non è il tempo libero o il non-lavoro: è il sacrificio.
   Tutto questo si chiarisce nella genealogia dello schiavo. In un primo tempo, il prigioniero di guerra è puramente e semplicemente messo a morte (è un onore che gli si fa). Più tardi egli è “risparmiato” e conservato ( = servus), a titolo di bottino e di bene di prestigio: diventa schiavo e passa alla condizione di domestico suntuario. È soltanto molto dopo che passa al lavoro servile. Non è tuttavia ancora un “lavoratore”, perché il lavoro non appare che nella fase del servo o dello schiavo emancipato, liberato infine dall’ipoteca della messa a morte, e liberato perché? precisamente per il lavoro.
   Il lavoro s’ispira quindi ovunque alla morte differita. Esso è una morte differita. Lenta o violenta, immediata o differita, la scansione della morte è decisiva: è essa che distingue radicalmente i due tipi d’organizzazione: quella dell’economia, quella del sacrificio. Noi viviamo irreversibilmente nella prima, che non ha cessato di radicarsi nella “differenza” della morte.
   Il copione non è mai cambiato. Colui che lavora resta colui che non è stato messo a morte, al quale è stato rifiutato questo onore. E il lavoro è in primo luogo il segno di questa abiezione di non essere giudicato degno che della vita. Il capitale sfrutta a morte i lavoratori? Paradossalmente, la cosa peggiore che infligge loro è di rifiutare loro la morte. È differendo la loro morte che li rende schiavi, e li vota all’abiezione indefinita della vita nel lavoro.
   Il questa relazione simbolica, la sostanza del lavoro e dello sfruttamento è indifferente: il potere del padrone gli deriva sempre anzitutto da questa sospensione della morte. Il potere non è quindi mai, contrariamente a quanto s’immagina, quello di mettere a morte, ma proprio all’opposto quello di lasciare in vita — una vita che lo schiavo non ha il diritto di rendere. Il padrone confisca la morte dell’altro, e conserva il diritto a rischiare la propria. Ciò è rifiutato allo schiavo, che è votato alla vita senza contraccambio, quindi senza espiazione possibile.
   E, sottraendolo alla morte, il padrone sottrae lo schiavo alla circolazione dei beni simbolici: è questa la violenza che gli fa, e che vota l’altro alla forza-lavoro. È qui il segreto del potere (Hegel, nella dialettica del padrone e dello schiavo, fa derivare così la dominazione del padrone dalla minaccia di morte differita sullo schiavo). Lavoro, produzione, sfruttamento non saranno che uno degli avatar possibili di questa struttura di potere, che è una struttura di morte.
   Questo cambia tutte le prospettive rivoluzionarie sull’abolizione del potere. Se il potere è morte differita, non sarà eliminato finché non sarà eliminata la sospensione di questa morte. E se il potere, di cui è ovunque e sempre la definizione, risiede nel fatto di dare senza che vi sia reso, è chiaro che il potere che il padrone detiene di concedere unilateralmente alla vita sarà abolito solamente se questa vita potrà essergli restituita in una morte non differita. Non c’è altra alternativa: non è conservando la vita che si abolirà mai questo potere, perché non ci sarà stata reversione di ciò che è stato donato. Solo la resa di questa vita, la ritorsione con la morte immediata della morte differita, costituisce una risposta radicale, e l’unica possibilità di abolire il potere. Qualsiasi strategia rivoluzionaria non può partire che dalla rimessa in gioco da parte dello schiavo della propria morte, la cui sottrazione, la differenza, è messa a profitto dal padrone per assicurarsi il potere. Rifiuto di non essere messo a morte, di vivere nella dilazione mortale del potere, rifiuto di dovere la vita e di non essere mai sdebitato di questa vita, e d’essere in realtà nell’obbligo di saldare questo credito a lungo termine, nella morte lenta del lavoro, senza che questa morte lenta cambi nulla ormai alla dimensione abietta, alla fatalità del potere. La morte violenta cambia tutto, la morte lenta non cambia nulla, perché c’è un ritmo, una scansione necessaria allo scambio simbolico: una cosa dev’essere resa nel medesimo movimento e secondo il medesimo ritmo, altrimenti non c’è reciprocità, ed essa non è affatto resa. È la strategia del sistema di potere quella di spostare il tempo di scambio, di sostituire la continuità, la linearità mortale del lavoro alla torsione, alla ritorsione immediata della morte. Quindi non serve a nulla allo schiavo (all’operaio) restituire a poco a poco, a dosi infinitesimali, sul filo del lavoro che lo uccide, la propria vita al padrone o al capitale, perché questo “sacrificio” a piccole dosi non è più propriamente un sacrificio, non tocca la differenza della morte, che è l’essenziale, e non fa che stillare un processo la cui struttura resta la stessa.
   Si può in effetti fare l’ipotesi che nel lavoro lo sfruttato renda la propria vita allo sfruttatore, e riconquisti con ciò, attraverso il suo stesso sfruttamento, un potere di risposta simbolica. Vi sarebbe un contro-potere nel processo lavorativo come messa in gioco da parte dello sfruttato nell’abiezione stessa del suo sfruttamento. E Lyotard ha ragione: l’intensità libidica, la carica di desiderio e di resa della morte, è sempre là presso lo sfruttato[1], ma essa non è più al ritmo, propriamente simbolico, della ritorsione immediata, e quindi d’una risoluzione totale. Il godimento dell’imponenza (a condizione di non essere un fantasma mirante a ricostituire il trionfo del desiderio al livello del proletario) non abolirà mai il potere.
   La modalità stessa della risposta mediante la morte lenta del lavoro lascia al padrone la possibilità di rendere di nuovo e incessantemente allo schiavo la vita nel lavoro, mediante il lavoro. Il conto non è mai regolato, è sempre a vantaggio del potere, di questa dialettica del potere che punta allo scostamento dei poli della morte, dei poli dello scambio. Lo schiavo rimane prigioniero della dialettica del padrone, e della propria morte, in cui la sua vita distillata serve alla riproduzione indefinita della dominazione.
   Ciò tanto più che il sistema s’incarica di neutralizzare questa ritorsione simbolica riscattandola con il salario. Se lo sfruttato cerca di restituire la propria morte allo sfruttatore nel lavoro, questi scongiura tale restituzione mediante il salario. Anche qui bisogna rifare una radiografia simbolica. Contro tutte le apparenze vissute (il capitale compre la forza-lavoro dal lavoratore e gli estorce il pluslavoro), è il capitale che lavoro al lavoratore (quanto al lavoratore, egli rende capitale al capitalista). Arbeitgeber: in tedesco, l’imprenditore è “datore di lavoro”; l’operaio è Arbeitnehmer, “prenditore di lavoro”. In materia di lavoro, è il capitalista che dà, che ha l’iniziativa del dono, il che gli assicura, come in qualsiasi ordine sociale, una preminenza e un potere ben al di là di quello economico. Il rifiuto del lavoro, nella sua forma radicale, è il rifiuto di questa dominazione simbolica, di questa umiliazione della cosa concessa. Dare e prendere lavoro funziona direttamente come codice del rapporto sociale dominante, come codice di discriminazione. E il salario è il contrassegno di questo regalo avvelenato, il segno che riassume tutto il codice. Esso sanziona questo dono unilaterale del lavoro, o ancora il salario riscatta simbolicamente la dominazione che il capitale esercita attraverso il dono del lavoro. È contemporaneamente la possibilità per il capitale di circoscrivere l’operazione di una dimensione di contratto, di stabilizzare il confronto nell’economico. Più ancora, il salario fa del salariato un “prenditore di beni”, il che significa raddoppiare il suo statuto di “prenditore di lavoro” e rafforzare il suo deficit simbolico. Rifiutare il lavoro, contestare il salario, è quindi rimettere in causa il processo di dono, di riscatto e di compensazione economica, è quindi mettere a nudo il processo simbolico fondamentale.
   Al giorno d’oggi, il salario non è più strappato. Vi si dona il salario così, non in cambio di lavoro, ma affinché voi lo spendiate, il che è un altro tipo di lavoro. E il prenditore di salario si trova a riprodurre nel consumo, nell’uso degli oggetti, esattamente lo stesso rapporto simbolico di morte lenta che egli subisce nel lavoro. L’utente vive esattamente della stessa morte differita dell’oggetto (egli non lo sacrifica, lo “usa”, ne “usa” funzionalmente) di quella del lavoratore nel capitale. E dal momento che il salario riscatta questo dono unilaterale del lavoro, il prezzo pagato per l’oggetto non è che il riscatto da parte del consumatore di questa morte differita dell’oggetto. Ne è prova la regola simbolica che vuole che ciò che vi tocca in sorte gratis (lotteria, regalo, denaro guadagnato al gioco) non sia destinato all’uso, ma speso in pura perdita.
    Qualsiasi dominazione dev’essere riscattata. Essa lo fu un tempo mediante la morte sacrificale (la morte rituale del re o capo), o ancora mediante l’inversione rituale (festa ed altri riti sociali: ancora una forma di sacrificio). Fino a questo momento, il potere si gioca ancora apertamente, direttamente. Questo gioco sociale della reversione cessa con la dialettica del padrone e dello schiavo, in cui la reversibilità del potere cede il posto a una dialettica della riproduzione del potere. Tuttavia, il riscatto del potere dev’essere sempre simulato. È il dispositivo del capitale, in cui il riscatto formale si fa attraverso l’immensa macchina del lavoro, del salario e del consumo. L’economico è per eccellenza la sfera del riscatto, quella in cui la dominazione del capitale riesce a riscattarsi senza rimettersi veramente in gioco — al contrario: sviando il processo di riscatto verso la propria produzione indefinita. La necessità dell’economico, e della sua apparizione storica, è forse qui: nell’urgenza, al livello di società ben più vaste e mobili dei gruppi primitivi, d’un sistema di riscatto che sia allo stesso tempo misurabile, controllabile, estensibile all’infinito (cosa che non sono invece i rituali), e che soprattutto non rimetta in causa l’esercizio e l’eredità del potere: produzione e consumo sono una soluzione originale e senza precedenti di questo problema. Lo slittamento dal simbolico all’economico permette, simulando il riscatto sotto questa nuova forma, di assicurare l’egemonia definitiva della potenza politica sulla società.
   All’economico riesce il miracolo di mascherare la vera struttura del potere rovesciando i termini della sua definizione. Mentre il potere è di donare unilateralmente (la vita, in particolare, vedi sopra), si è riusciti a imporre l’evidenza opposta: il potere sarebbe di prendere e di appropriarsi unilateralmente. Al riparo di questo trucco geniale, la vera dominazione simbolica può continuare a realizzarsi, poiché tutti gli sforzi dei dominati cadono nella trappola di riprendere al potere ciò che questo gli ha preso, anzi di “prendere il potere stesso” — spingendo così ciecamente nel senso della loro dominazione.
   In realtà, lavoro, salario, potere, rivoluzione, bisogna rileggere tutto all’inverso:
   il lavoro non è sfruttamento, esso è donato dal capitale;
   il salario non è strappato, è anch’esso donato: non acquista una forza-lavoro, riscatta il potere del capitale[2];
   la morte lenta del lavoro non è subita, è un tentativo disperato, una sfida al dono unilaterale del lavoro da parte del capitale;
   l’unica replica efficace al potere è di rendergli ciò che esso vi dona, e questo è possibile simbolicamente solo con la morte.
   Ma se il sistema stesso, come abbiamo visto, destituisce l’economico, gli toglie la sua sostanza e la sua credibilità, non mette forse in causa, in questa prospettiva, la sua stessa dominazione simbolica? No, perché il sistema fa regnare ovunque la sua strategia del potere, quella del dono senza contro-dono, che si confonde con la morte differita. Il medesimo rapporto sociale s’istituisce nei media e nel consumo, dove abbiamo visto (Requiems pour les Media) che non esiste una risposta, un contro-dono possibile all’emissione unilaterale dei messaggi. Si è potuto interpretare (progetto del CERFI sugli incidenti automobilistici) l’ecatombe automobilistica come “il prezzo che la collettività paga alle sue istituzioni [...] i doni dello Stato iscrivono nella contabilità collettiva un ‘debito’. La morte gratuita non è allora che un tentativo di cancellare questo deficit. Il sangue sulle strade è una forma disperata di compensare i doni in macadam dello Stato. L’incidente si pone così in questo spazio che istituisce il debito simbolico verso lo Stato. È probabile che più questo debito cresce, più si accentui la tendenza all’incidente. Tutte le strategie ‘razionali’ per stroncare questo fenomeno (prevenzione, limiti di velocità, organizzazione dei soccorsi, repressione) sono in realtà irrisorie. Esse simulano la possibilità di integrare l’incidente a un sistema razionale, sono perciò stesso incapaci di cogliere il problema alla radice: la liquidazione d’un debito simbolico che fonda, legittima e rafforza la dipendenza della collettività nei confronti dello Stato. Al contrario, queste strategie ‘razionali’ accentuano il fenomeno. Per contrastare gli effetti degli incidenti, esse propongono l’instaurazione di altri dispositivi, di altre istituzioni statali, di ‘doni’ supplementari, che sono altrettanti mezzi per aggravare il debito simbolico.”
   Così ovunque la lotta opponga una società e un’istanza politica (cfr. Pierre Clastres, La Società contro lo Stato) che sovrasta con tutto il potere che essa trae dai doni di cui la colma, dalla sopravvivenza in cui la mantiene, dalla morte che le toglie — per accantonarla e stillarla in seguito ai propri fini. Nessuno accetta mai in fondo questa gratificazione, ricambia come può[3], ma il potere dona sempre di più, per meglio asservire, e la società, o gli individui, possono giungere fino alla propria distruzione per mettervi fine. È la sola arma assoluta, e la sua semplice minaccia collettiva può far crollare il potere. Davanti a questo solo “ricatto” simbolico (barricate del ’68, presa di ostaggi) il potere si disunisce: dato che vive della mia morte lenta, gli oppongo la mia morte violenta. Ed è perché viviamo della morte lenta che sognamo la morte violenta. Questo stesso sogno è insopportabile al potere.



[1] Questo è indubbiamente piuttosto vero nella fase d’abiezione fisica e di sfruttamento selvaggio, di “prostituzione” capitalistica sotto la legge mercantile del valore. Cosa ne rimane nella nostra fase della legge strutturale del valore?
[2] È particolarmente chiaro, quando, nell’ “imposta negativa”, il salario è unilateralmente concesso, imposto, senza contropartita del lavoro. Il salariato senza equivalenza: si vede ciò che si annoda in questo contratto transeconomico — la dominazione pura, l’asservimento puro mediante il dono e il premio.
[3] È questo lo scambio simbolico. Contro tutta l’ideologia del dono, ideologia umanistica, libertaria o cristiana, bisogna sottolineare: il dono è la fonte e l’essenza stessa del potere. Solo il contro-dono abolisce il potere — reversibilità dello scambio simbolico.