mercoledì 22 settembre 2021

Aretè, Virtus, Dharma

 Aretè, Virtus, Dharma 




Qual è il senso della vita? Ognuno di noi deve trovare la risposta. Ma il problema più grande è: come? È difficile trovare il senso di qualcosa infinitamente più grande di noi.

Ci deve essere allora qualcosa capace di metterci in contatto con l’infinitamente grande, che ci permetta di scoprire il senso della vita. Questo “qualcosa” è stato chiamato in vari luoghi e in varie epoche aretè, virtus, dharma, a seconda che ci si trovi in Grecia, Roma o India.

L’aretè è la capacità dell’uomo greco di assolvere al proprio dovere, e viene dalla radice –ar che denota l’aspetto guerriero della vita (Ares è il dio della guerra). Ma questo dovere chi lo decide? Ognuno di noi porta scolpita dentro di sé la propria legge interiore, e nella formulazione indiana di questa visione, che è al tempo stesso la più chiara e la più poetica, questa legge si chiama dharma. La parola rimanda al senso di immutabilità, di stabilità incontrovertibile, che rimane nell’imparentata parola italiana “firma”. Esiste un dharma individuale, così come un Dharma cosmico, e infiniti dharma “intermedi” di gruppi o insieme di cose, ad esempio di un popolo. Porre il proprio dharma in armonia con il Dharma (in ar-monia, figlia di Ares e Afrodite) universale è precisamente il risultato di aver conquistato l’aretè.

Il mezzo con cui diventiamo capaci di conquistare l’aretè è la virtus, cioè quella caratteristica interiore che ci fa sintonizzare con il sentire del nostro Centro. Possiamo anche dire che i due concetti sono in parte sovrapponibili.

Ma la virtus costa fatica: bisogna allenarsi e addestrarsi tutti i giorni per raffinare la propria sensibilità, riuscire innanzitutto a distinguere gli impulsi negativi da quelli positivi, le istanze interiori che ci fanno disperdere energie da quelle che ce le fanno raccogliere; ottenuto questo già importante risultato, si tratta poi di scegliere di assecondare l’intuito che porta al Centro contro le innumerevoli tendenze della nostra natura a battere i percorsi già conosciuti, percorsi che spesso sono discendenti.

Quindi la virtus si ottiene con due mezzi che in realtà sono uno: allenare la nostra intuizione e il nostro sentire interiore, per mezzo dell’introspezione; e la pratica delle virtù, cioè un agire corretto e conforme alla norma che ci si è dati, che gradualmente si trasformerà nella norma interiore (il proprio dharma) che risulterà sempre più chiaro e il cui emergere eclisserà le norme esteriori che avranno così esaurito il loro compito di supporto temporaneo ed esterno.


Infine, conosciuto e messo in pratica il proprio dharma, attraverso l’aretè, nutrita dalla virtus, saremo diventati uomini veri. Si attua così il passaggio da homo a vir, da uomo puramente biologico a persona consapevole delle proprie potenzialità, sia sul piano della trascendenza che su quello dell’immanenza. Un tale uomo veniva chiamato arya dai nostri progenitori indoeuropei, che vuol dire nobile e che designava i capi tribù, i re e i capi militari di un tempo. I re di una volta non avevano grossi regni, come Ulisse potevano regnare su un isola con poche centinaia di abitanti; nondimeno sono passati alla storia come sommi esempi di virtù, perché la loro vita è stata una adesione e attuazione costante delle azioni che sbocciavano dal loro sentire più profondo, e che rispettavano con la giusta riverenza che bisogna tributare al proprio Centro, alla nostra vera natura.

Una tale vita, piena di felicità poiché avrà dato molti frutti, non per questo esente da sofferenze anche dolorose, potrà a pieno titolo dirsi degna di essere vissuta e colmata dalla pienezza di senso.