Alcuni
spunti per la “risposta creativa” alla Crisis
Alcuni spunti presi da: Bede
Griffiths, “Meditazione e comunità. La nuova creazione in Cristo”, Edizioni
Dehoniane Bologna, Bologna 2005 (prima edizione 1999):
“...È quindi importante che gli oblati di san Benedetto restino i contatto
con un monastero maschile o femminile, in cui si preserva la tradizione della
preghiera. Penso che tutti lo riconosciamo. I gruppi sono sparsi ovunque, ma
hanno bisogno di un qualche legame con la tradizione. Padre John [Main] parlava continuamente della «tradizione». Si tratta di una realtà
vivente che passa da persona a persona e noi abbiamo bisogno di questo legame.”
(Pag. 40)
“Leggendo questi testi [Upanishad e Bhagavad Gita] entriamo in contatto non solo con il sacro, ma anche con un movimento
mondiale. Nel V secolo a.C. si è registrato un potente balzo in avanti nella
storia umana. Carl Jaspers parla di «periodo assiale». Vi avvenne qualcosa che
permise all’umanità di oltrepassare il mondo dei sensi, il mondo esteriore con
tutti i suoi déi e le sue dee, e di prendere coscienza dell’infinita realtà e
verità trascendente. Lo si vede nelle Upanishad, nel Buddha in India, in Lao Tse in Cina e, in qualche misura, in
Zaratustra di Persia, in Grecia con Eraclito, Socrate e Platone, e
contemporaneamente, in Israele con i profeti maggiori. Si è trattato di un
fenomeno mondiale. Tutte le principali religioni mondiali provengono da quel
periodo. È importante cominciare la propria preghiera e meditazione
ricollegandosi a quel potente balzo in avanti dell’umanità.
Naturalmente, nel caso dei
laici, questa focalizzazione sulla preghiera e sulla meditazione deve essere
inserita in un’esistenza normale, finalizzata anche a procurarsi di che vivere
nel mondo. È qui che comincia il problema. Ed è su questo punto che dobbiamo
incentrare il nostro lavoro. Una vita del genere può comportare varie
occupazioni, [...].
Infine, dobbiamo
riflettere sul modo in cui poter collegare tutte le comunità laicali sparse nel
mondo. Tutti sentiamo la necessità di avere forme di collegamento. Non vogliamo
una grande organizzazione. Ciò rappresenta un grosso pericolo. Dobbiamo avere
una specie di centro, ma la federazione dei vari gruppi dovrebbe essere
piuttosto sciolta, in modo che ogni comunità possa conservare la propria
individualità, con i suoi usi e costumi e le sue tradizioni, ed essere al tempo
stesso in collegamento con le altre e con un monastero o guida spirituale.
Sembra essere questo il modello cui guardare. Quando si ha una piccola comunità
– le comunità dovrebbero essere normalmente piccole – altre persone possono
aggiungersi e dopo un certo tempo sciamare e dar vita a un’altra piccola
comunità, piuttosto che ingrandire oltre misura un piccolo gruppo. Le grandi
comunità creano sempre problemi, problemi economici anzitutto.
Ma qualunque sia
l’organizzazione, dobbiamo sempre ricordare che questi gruppi sono
essenzialmente contemplativi. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Altrimenti,
perderemo il nostro vero valore e significato. Qualunque lavoro ci attenda,
qualunque servizio svolgiamo, dobbiamo collegarlo e associarlo intimamente alla
nostra preghiera, alla nostra meditazione, alla nostra contemplazione. Noi
cerchiamo di introdurre tutta la nostra vita, tutto il nostro essere, tutta la
nostra esistenza secolare, in questa profonda vita di preghiera. È questo che
cerchiamo di fare. È questa la nostra speranza per queste comunità laicali. Ed
è questa la nostra preghiera: che tutti questi gruppi e incontri si trasformino
gradualmente in un nuovo tipo di Chiesa, una Chiesa che è incentrata sulla
preghiera contemplativa e rinnova tutta la vita cristiana e, speriamo, la vita
umana nel contesto della preghiera”. (Pag. 42-45)
“Dobbiamo ricordare che un monaco non è un sacerdote ed è molto
importante tenere distinte queste due vocazioni. [...].
Sento che oggi siamo
giunti a un punto in cui dobbiamo tenere separate e distinte le due vocazioni.
Il monaco è un laico. San Benedetto non era un sacerdote e le prime comunità
benedettine erano «comunità laiche». Il monaco possiede la sua vocazione
specifica, che è vocazione di preghiera, meditazione e offerta della vita a
Dio. Il sacerdote invece è chiamato a svolgere un ministero sacramentale.
Secondo me, normalmente il monaco non dovrebbe lasciarsi coinvolgere nel
ministero sacramentale. Un monaco indù passa attraverso una specie di rito
funebre quando diventa sannyasi. Muore all’ordine
sociale e si ritiene che non debba più celebrare il puja. Nella tradizione indù, il puja è il rito che celebra normalmente il sacerdote.
Il sannyasi ha oltrepassato la
dimensione sociale e sacramentale e appartiene a Dio solo.
Un ordine monastico è
essenzialmente un ordine laicale. Alcuni monaci possono vivere nei monasteri,
ma sempre più spesso la maggior parte di loro vivrà in casa propria o formerà
piccole comunità, un ordine monastico nel mondo. Assomiglieranno maggiormente
ai sufi che non sono sacerdoti. Spesso il sufi è sposato e la comunità si
riunisce nel contesto della famiglia. Sono modelli che potremmo facilmente imitare
ed è probabilmente questa la direzione nella quale stiamo andando, oggi.” (Pag
103-104)
“Alcuni ashram cattolici sono molto impegnati
nell’attività sociale e sono stati fondati principalmente a tale scopo. Ma noi
sentiamo che l’ashram è un centro dove
può maturare una consapevolezza più profonda. La nostra meditazione dovrebbe
renderci naturalmente più coscienti dei problemi dell’umanità e del nostro
prossimo. L’attività sociale dovrebbe scaturire dalla nostra contemplazione.
Non dovrebbe essere un’attività collaterale o qualcosa di intrinsecamente
diverso, ma dovrebbe essere integrata nella nostra preghiera e meditazione.
Personalmente, ho sempre
sentito che la meditazione perde in profondità quando non si nutre dei problemi
della gente e dei problemi del mondo. Non c’è rivalità tra contemplazione e
azione.” (Pag. 111)
Personalmente, ho sempre sentito che la meditazione perde in
profondità quando non si nutre dei problemi della gente e dei problemi del
mondo.